CHI SIAMO

RIGENERARE IL POPOLO DI DIO

Relazione di don Roberto Trevisiol al primo incontro della
Scuola diocesana di Metodo "Come nasce e vive la Comunità" - 5 novembre 2005

 

Do questa testimonianza perché mi è stata chiesta.
Non credo che la mia parrocchia sia speciale.
Ci sono cose che per grazia di Dio vanno e altre che segnano il passo.
Ad esempio siamo fermi anche noi attorno al 20% di presenza alla messa domenicale (quando va bene). Quando sono arrivato a Chirignago eravamo attorno al 25%. È vero che nel frattempo siamo quasi raddoppiati di numero e che l’inserimento dei nuovi arrivati nel tessuto parrocchiale è per forza molto lento, ma neanche noi abbiamo compiuto miracoli.
Un altro grosso limite della mia parrocchia, di cui sono seriamente preoccupato, è che da più di 25 anni non dà una sola vocazione alla Chiesa, né femminile né maschile.
E questa può essere anche una prova, un “pungolo nella carne” perché non montiamo in superbia, ma può essere anche un brutto sintomo, può indicare che alla fine non sappiamo colpire il bersaglio, non sappiamo condurre fino al dono totale a Dio ed alla Chiesa.
Potrei continuare ma non sono venuto a piangervi sulle spalle.
Ci sono cose che vanno bene, o almeno benino, a Chirignago, ma prima vi descrivo in due parole la parrocchia.
Era un paese, ora è diventata una periferia anche se nella coscienza dei vecchi residenti Chirignago non ha nulla a che fare con Mestre. Esiste dal 1500, ha una bella chiesa, strutture sufficienti ma non migliori di altre comunità, vi vivono circa 8000 abitanti.  Tutta gente che campa di lavoro o di pensione. Pochissimi i ricchi, pochi i laboratori, nessuna industria. Il turnover è molto limitato. Chi compera casa a Chirignago (e la stragrande maggioranza dei residenti non è in affitto) difficilmente va ad abitare altrove.
Infatti questo paese e questa parrocchia, bruttissimi dal punto di vista urbanistico, generalmente rubano il cuore.
Io vi sono parroco da quasi vent’anni, ho avuto tre cappellani (uno è rimasto 10 anni, uno 7 ed uno è con me da quasi due) e considero questa continuità di permanenza un fattore positivo nell’insieme della vita pastorale.

Quali sono le idee a cui ci siamo ispirati.
Innanzitutto dirò che noi non abbiamo mai creduto in proposte o progetti stravaganti, strani o sorprendenti. Siamo sempre stati, invece, persuasi che è l’impegno semplice, quotidiano, fedele che produce frutto. Sono le realtà essenziali, quelle che Cristo, la Chiesa e la tradizione ci hanno consegnato ad essere vincenti.
Per farvi un’idea di ciò che intendo dire, vi dirò che non ho mai nemmeno lontanamente pensato di costruire una discoteca parrocchiale, o una sala di giochi elettronici, o impianti sportivi che facciano concorrenza a quanto c’è nel mercato.
Anzi, personalmente non credo nemmeno ai calcetti ed ai ping pong, e come don Milani detesto tutto ciò che ci fa sembrare i parenti poveri di altri che hanno mezzi, denaro, e coscienze pelose con cui ci mangiano in un boccone.
Non abbiamo nemmeno sentito il bisogno di chiamare movimenti o aggregazioni ecclesiali di successo.
Siamo partiti (ma l’espressione non è esatta, perché prima di me hanno lavorato, e con fedeltà, competenza ed efficacia tanti preti e tanti laici) dal documento del patriarca Cè “Il granello di senapa”.
Lì ci sono tutte le idee e tutte le proposte che, realizzate più o meno bene, hanno portato alcuni risultati, come, ad esempio i 75 giovani che quest’anno sono andati a Colonia, o i ragazzi che dopo la Cresima non scappano dalla comunità ma per 3/4 rimangono e frequentano messa e catechismo, o la quasi totale partecipazione dei bambini alla messa domenicale – nel tempo scolastico, s’intende – o la solida salute delle associazioni. Già, le associazioni, ci torneremo tra poco.
Noi siamo persuasi, e lo siamo sempre stati, che per avere buoni risultati occorra usare buoni ingredienti. Mi capita abbastanza spesso di fare dei dolci, a chi mi chiede la ricetta rispondo che non ce l’ho, ma che mettendo insieme tutti ingredienti buoni è impossibile che il dolce risulti cattivo.
Quali gli ingredienti principali?
Quelli che ci ha lasciati Gesù, innanzitutto.

La Parola di Dio, il Vangelo, i sacramenti, specialmente due: la S. Messa e la confessione.

A proposito della Parola, del vangelo, sono testimone che non solo a Chirignago, ma anche altrove sono stati e sono fonte di una forte vita cristiana.
Non riesco a capire chi, avendo a portata di mano questi strumenti eccezionali, cerca altrove, spesso raccattando robaccia, per costruire la Chiesa.
Ma attenzione: il Vangelo, a mio parere, non può essere annunciato quasi di nascosto, come vergognandosi. Qualcuno sembra dire: scusami se credo che Gesù è il Figlio di Dio, so che da fastidio sentirlo ripetere, ma io, che posso farci? Ma lo dirò sottovoce, il più sottovoce possibile in modo da non disturbarti. Io mio sarà un discorso politicamente e sociologicamente corretto.
Ma neanche per scherzo. Noi siamo fieri, orgogliosi, innamorati del Vangelo. E sappiamo che facciamo un favore a dirlo a tutti, anche ai non credenti, anche ai mussulmani. Perché no?
Dunque: noi abbiamo accolto la proposta dei gruppi di ascolto. L’abbiamo interpretata a modo nostro fissando gli incontri con cadenza mensile, perché siamo persuasi che una goccetta continua sortisce effetti più buoni degli acquazzoni, ma ci siamo rimasti fedeli. E io mi incontro ogni mese con tutti gli animatori, li ascolto, li aiuto, fornisco loro materiale per gli incontri. Non abbiamo avuto problemi.
Ma accanto ai gruppi di ascolto abbiamo sempre coltivato il catechismo per gli adulti, che facciamo in orari diversi tutte le settimane, al mattino, nel pomeriggio e dopo cena.
E poi c’è il catechismo dei bambini – ragazzi – giovani.
A questo proposito vi dico, forse in contrasto con l’ufficio catechistico diocesano, che io non credo agli esperimenti che mi pare si stiano facendo in giro, tipo incontri quindicinali, con gioco e merenda. Ci crederei se fossero settimanali. Ma quando dalla settimana si passa ai quindici giorni basta che il giorno giusto un ragazzo abbia un raffreddore, il dentista, il compleanno e lo rivedi dopo un mese, se poi in mezzo c'è il Natale o la Pasqua, bondì: passa un mese e mezzo – un’eternità per un bambino – senza che senta mai parlare di Gesù, senza che si faccia il segno della croce, senza che dica un’Ave Maria.
No, no. Io credo ancora al catechismo come “scuola di dottrina cristiana”, nella quale si imparino gli elementi essenziali della fede. La parte “esperienziale” va proposta dopo, o in altri modi (ed anche qui le associazioni possono giocare un ruolo essenziale).
Con un catechismo così noi abbiamo una presenza del 95% al catechismo ed una attorno all’85% alla Messa.
Ma è importante che le classi siano piccole, e che le catechiste o i catechisti abbiano un rapporto personale, di famiglia, con i ragazzi.
Allora ci vogliono più catechisti. Che ci sarebbero e ci sono se non fossero abbandonati a se stessi. Perché un catechista che si trova 20 ragazzi sul groppone e deve risolvere da solo i problemi della preparazione, dell’annuncio e della disciplina, dopo un paio d’anni pianta tutto e se ne va. Ed ha anche ragione.
Se parlassi ai vostri parroci aggiungerei qualcosa che non è il caso di dire in questa sede.
Ad ogni modo: noi abbiamo un’esperienza di questo tipo, e ci siamo sempre trovati bene.
Di più non posso dire.

I sacramenti: la messa, in special modo.
La messa che deve essere un momento forte di preghiera, con i suoi tempi di silenzio e di adorazione, ma anche un’occasione di festa e di aggregazione, ma su questo tornerò più avanti.
Non sto qui a dirvi come si celebra la messa perché, tra l’altro, voi siete laici, ma vi dico qualcosa che voi potete chiedere e forse anche pretendere dai vostri parroci, senza giudicare se siano bravi a predicare o a celebrare. D’inverno la chiesa deve essere calda ed accogliente. Se è fredda e sporca non vien voglia di entrarci. In questo i laici hanno, eccome, voce in capitolo. E poi è necessario che la celebrazione sia accompagnata dal suono o dell’organo o delle chitarre. Tutto aiuta.
E poi la confessione.
Non è vero che nessuno si confessa più. Non ci sono più le code per Natale, Pasqua e per i morti, ma se il sacerdote rimane fedele, un po’ per volta la gente viene. Io di sabato pomeriggio non accetto nessun impegno di nessun genere per nessun motivo. E quando mi metto a confessare arriva l’ora di messa senza che mi possa nemmeno sgranchire le gambe.
Se fate parte del Consiglio pastorale della vostra parrocchia queste cose le potete chiedere, e con forza.
A proposito, apro una parentesi: nella nostra parrocchia i laici non sono collocati a livello esecutivo ed basta. Sono anche loro nella stanza dei bottoni. Non credo che abbiamo mai iniziato qualcosa di significativo senza l’accordo preventivo con il mondo laicale. E i laici non ci hanno mai lasciato ad arrangiarci da soli, noi preti, nei momenti difficili.
Chiusa la parentesi.
Certo non potrete pretendere che nel frattempo il prete faccia anche altre cose: tenga aperto il patronato, risponda al telefono, visiti gli ammalati e via discorrendo.

Vi dicevo che accanto a Gesù ed alla Chiesa c’è anche la tradizione che ci aiuta.
Noi abbiamo trovato un grande, grandissimo aiuto dalle associazioni. Da noi c’è l’Azione Cattolica e ci sono gli scouts.
Insieme raccolgono moltissimi bambini, ragazzi, giovani ed anche adulti. E sono il volano che aiuta la comunità  parrocchiale a superare alcune grosse difficoltà. Per esempio: i ragazzi che fanno parte delle associazioni, quando sono in terza media, continuano ad esserci anche dopo la Cresima. Ma la loro presenza induce anche i loro amici a restare e così si genera un moto virtuoso, perché voi sapete che i giovani sono come i schèi: vanno dove ce n’è già.
Si dice, spesso, che i gruppi sportivi ci portano via i ragazzi dalle parrocchie: allenamenti, partite, tornei… ma la battaglia sarà persa finché rimarremo a piangere e ad inveire: occorre che possiamo offrire delle alternative che siano belle, affascinanti per cui i ragazzi stessi, pur tentati dal calcio o dal basket, perché si vedono già campioni di serie A – poveri illusi, loro ed i loro genitori – non se la sentano di lasciare l’AC, di lasciare gli scouts, perché è troppo bello quello che lì si vive.
Naturalmente non si può pretendere senza prima dare: noi alla nostra AC e ai nostri scout diamo tempo, energie, attenzioni e tutto quello che è nelle nostre possibilità perché crescano bene, robuste e sane. Ma abbiamo il nostro tornaconto.

Per riassumere: i mezzi che nostro Signore e la Chiesa ci hanno lasciato sono più che sufficienti per competere e per vincere nel nostro mondo. Io ne sono così sicuro che ci metto sopra la testa.

Ma voglio ora dire qualcosa del “modo” con cui si deve vivere in comunità.
E del modo con cui si deve fare pastorale, preti o laici che si sia.
Dio, quando si è deciso di salvare il mondo si è fatto uomo in Gesù Cristo.
Lui stesso, allora, ci ha detto e dato la strada maestra per realizzare qualsiasi cosa che abbia a che fare con la salvezza: l’umanità.
Tutto ciò che è profondamente umano e anche profondamente cristiano, e tutto ciò che non è umano non ha nulla a che fare con Gesù Cristo.
Se le nostre comunità non profumano di umanità, non c’è niente da fare.
È meglio che andiamo a casa.
Si comincia dalle piccole cose: talvolta entro in certi patronati e mi dico: io qui non ci starei, di mio, neanche un minuto.
Brutti, sporchi, con porte e finestre vecchie e malandate, con mobili di risulta, non c’è una sedia uguale ad un’altra, ci sono tavoli di tutte le specie e di tutte le epoche, quadri che uno a casa sua non terrebbe neanche in garage… Ma come può uno che a casa sua ha tutto bello, tutto in ordine, come può star bene, far delle belle riunioni, sentirsi a suo agio in un ambiente così?
San Benedetto, nella sua regola, insegna ai monaci che l’ordine esteriore determina l’ordine interiore. Andate in un monastero benedettino, uno qualsiasi, a Praglia, a San Giorgio, a Santa Giustina e vedrete che c’è la cera per terra, che i muri sono bianchi di bucato, che non c’è un pelo fuori regola.
Se poi ci aggiungete il freddo, e certi patronati lo sono proprio, ditemi voi come si può star bene.
Il mio è un esempio.
Ma che vale per tutto: se le nostre celebrazioni sono anonime, fredde, asettiche, se non palpitano di umanità, se non ci si sta bene, uno per un po’ va avanti perché è fedele e vuol fare la sua parte, ma poi si stanca e o cerca altrove o molla tutto.

Quello che vale per i luoghi, che vale per le celebrazioni, vale per i rapporti umani.
Se un laico cristiano vuol collaborare a che la sua comunità rifiorisca, diventi un termosifone di umanità.
Talvolta basta così poco, ma anche il poco che basterebbe non sempre trova chi sia disposto a darlo.
Un esempio: io dico alle mie catechiste: avete dieci ragazzi, informatevi del loro compleanno. E fategli una telefonata, mandategli un bigliettino, magari un regalino, una stupidaggine: si ottiene di più con una goccia di miele che con un barile di aceto.
Ma quante mi ascoltano?

È evidente, però, che i laici possono arrivare fino ad un certo punto.
Perché oggi il timone ce l’ha ancora in mano il sacerdote.
E qui mi permetto di supplicare chi di dovere che come giustamente si coltiva la formazione teologica nei candidati al sacerdozio, si coltivi anche e forse di più la dimensione umana.
Sapere la matematica è necessario, ma conoscere Pierino che la deve imparare ed indovinare il linguaggio ed il modo giusto per spiegargliela è ancor più necessario.
Umanità e tanta passione.
Se nessuno ama la sua comunità, ama la Chiesa, ama Gesù Cristo con passione, con vera passione, non c’è speranza di rinascita

Finisco e riassumo: non c’è bisogno, a mio parere di strumenti di importazione.
Il Signore ci ha fornito di tutto ciò che è necessario e sufficiente per convertire il mondo di oggi.
E tanta, tanta e poi tanta umanità accompagnata dalla passione.
Da parte del parroco, dei suoi collaboratori, e della comunità tutta.
E proprio per finire…

Dai che ce la facciamo!