I PARROCI DI CHIRIGNAGO DALLE ORIGINI AL 1861

Un vecchio documento riporta l’Elencus Parochorum Ecclesiae S. Georgii M. de Clerinaco:

1292 Jacobus clericus Rector
1297 Marcus presbiter Rector
1330 Georgius presbiter Rector
1340 pre' Pietro ex Butenicus, Rector S. Mariae de Caurignago
1344 Jacobellus presbyter, Rector de S. Georgii de Clerinaco
... ...
1459 Bartholomeus... Rector
1517 Antonius Cornado... Plebanus
1521 Nicolaus Blanco canonicus Rector
1530 Philippus… Rector
1570 Marcus Antonius Sancta Cruce
1592 Hieronymus Sancta Cruce Rector
1610 Abas Marcus Franciscus Rector
1617 Christophorus Baldi Rector
1622 Vincentius Rusca, Venetus
1662 Baltassar Figari Rector (Ficarium)
1691 Joannes Bortolatus (Bortolotti)
1724 Victor Scottus - qui transl. ad Parr. S. Andrae Tarvisii die 24 Sept. 1740
1741 Victorius Allegri Doctor Archipr.
1774 Joan. Andrea Piccinato Dr. Archip. Vic. Foraneus
1813 Laurentius Campello Arch.
1836 Benedictus Veruda Arch. Pro Vic. Foraneus qui trans. fuit ab Eccl. Trivignani Mestrens
1861 Joannes Baptista Buso Archip. Mons. Vic. Foraneus
1914 Richardus Bottacin Archip. Mons. Vic. Foraneus
1958 Albinus Tenderini Archip. Mons.

Dal 1987 don Roberto Trevisiol Arciprete

 

In un documento del 2 dicembre 1292 figura nella chiesa di San Lorenzo di Mestre Jacobus Clericus del vescovo di Treviso rettore di Clarignago, dove giungono cinque lettere del vescovo che ingiungono l'obbedienza al patriarca di Aquileia.
Nella Rationes decimarum Venetiae-Dalmatiae et Histrie del 1297 è presente Marcus presbiter e con lui c'è pure il chierico Corsio, che pagano 40 soldi.
Nel quaderno della decima vescovile, nel 1330 c'è il presbiter Georgius che paga 50 lire di colletta assistito dal suo chierico Stanectus di Venezia.
Nel 1344 era rettore di San Giorgio il sacerdote di Venezia Jacobellus. Il Giacobello versò la decima triennale per la guerra contro i Turchi imposta da Papa Clemente VI.

Nel corso del Pontificato di Papa Clemente VII (1523-1534), Girolamo Rorario (1485-1556) ebbe il Benefizio Parrocchiale di San Giorgio di Cirignago, si suppone in commendam, essendo solamente tonsurato. Girolamo Rorario è notissimo ancor oggi come umanista, sacerdote, giureconsulto, cultore di studi filosofici, diplomatico pontificio, protonotario apostolico, nunzio di Papa Leone X in Germania ai tempi di Martin Lutero, nunzio apostolico presso la dieta di Norimberga, podestà di Pordenone dal 1545 al 1547.

Il Rettore Bartolomeo di Pietro (1459-1517) trasforma nel 1459 la confraternita laica dei Battuti, esistente sin dal 1441 (concessione di indulgenza di quest'anno), nel titolo di Beata Vergine della Misericordia (o Santa Maria della Misericordia). Nel 1505 nasce anche la scuola del Santissimo Sacramento, documentata dal 1508: importante perchè è tra le più antiche di terraferma (detta del Salvatore nel 1592 e del Venerabile nel 1725).

Il Rettore Nicola (o Nicolò) Bianco (1521-1528) era uno dei canonici della collegiata arcidiaconale di Mestre. Il cenacolo della sapienza mestrina gli insegnò l’arte e nel 1521 volle stendere la regola della Confraternita della Beata Vergine della Misericordia (mariegola) in un codice miniato, risparmiato dall’ingiuria dei tempi e conservato negli archivi parrocchiali. Il prezioso manoscritto è steso nelle parti essenziali in latino; nel resto in dialetto veneto primitivo utile alla glottologia. È ricco di notizie e di particolari sulla vita dei nostri villaggi di campagna. Prezioso documento è codesto di pietà laicale, sia perchè è la prima scuola di terraferma dopo quella della Madonna di Mestre, come si diceva nella supplica rivolta al comune di Chirignago per il suo riordinamento nel 1757, sia per i testi linguistici. In calce a f. 2r., stemma con liocorno rampante in campo azzurro-rosso sbarrato di traverso (blasone della famiglia Bianco) con la dicitura laterale: "Dominus presbiter Nicolaus Blancho, rector ecclesie sancti Georgii de Clarignago, diocesis tarvisine".
Nel 1521 venne concesso alla chiesa il fonte periodico stagionale, cioè nelle epoche dell’inverno freddo, nei tempi delle piene dei fiumi quando era difficile portare i neonati al battesimo della chiesa matrice di Mestre. Il fonte battesimale, ottagonale, è lo stesso utilizzato ancor oggi e si trova in chiesa, ai piedi del presbiterio accanto alla porta della cappella del SS.mo Crocifisso.
Nel 1528 il rettore Nicolò Bianco rinunciò all'incarico.

Nel corso del parrocato del Rettore Filippo di Zanachi (1530-1570) visita pastorale del vescovo di Treviso card. Francesco Pisani (1554).

Il Rettore Marco Antonio Santacroce (1570-1592) nel 1571 fece eseguire al nipote pittore bergamasco Francesco da Santacroce (detto Croco nella regola) la celebre pala raffigurante la Beata Vergine della Misericordia (Madonna in trono e i Santi Giorgio e Marco e devoti), per l’altare della confraternita omonima, tuttora conservata in chiesa sul secondo altare sulla parete sinistra in cornu Evangelii .
A Chirignago viveva anche la famiglia “bene” del veneziano Zambattista Santacroce, suo parente. Durante il suo parrocato si ebbe un importante avvenimento storico: la vittoria di Venezia sui Turchi a Lepanto (1571).
Il 2 Novembre 1574 muore a Chirignago, dove si era ritirato a vita privata, mons. Marzio de Marzi de Medici, nato il 21 Novembre 1511, vescovo di Marsico Nuovo dal 1541 al 1573. Viene sepolto nella chiesa della Madonna dell'Orto a Venezia.

Il Rettore Girolamo Santacroce (1592-1610) fece confermare gli statuti dal vicario generale di Treviso Luca Antonio Zilio.
La sua famiglia era stabilita a Chirignago o vi teneva una casa di villeggiatura. È coadiuvato nelle sue funzioni da un parente, Pietro Santacroce, forse un mansionario, dal cappellano della chiesa, dal cappellano della confraternita della Beata Vergine della Misericordia e anche dal curato di Spinea.
Nel 1609 visita pastorale del vescovo di Treviso mons. Francesco Giustiniani. Nella relazione scritta dal rettore si descrive lo stato degli altari del 1565 delle Sante Caterina (forse di Alessandria) e Lucia vergini e martiri. Erano queste tipiche devozioni popolari contro determinate malattie (la pelle e gli occhi).

Il Rettore Abate Francesco Moro (o Francesco Marco o Francesco Marin) (1610-1616) era di nobile famiglia ed il suo stato era quindi una valida ragione per non mettere piede in una parrocchia fuori Venezia. Sicuramente viveva lontano da Chirignago perché non è presente nei registri dei battesimi e dei matrimoni. Tuttavia un busto e un'iscrizione sul fronte della chiesa ne ricordavano la figura.
A quel tempo oltre che tra i vescovi, anche tra i pievani, esisteva la cattiva abitudine, durata ben oltre il Concilio di Trento, di assentarsi dalla parrocchia, ponendovi un sostituto, per dimorare in luoghi più piacevoli e dedicarsi ad occupazioni meno gravose. Il Concilio di Trento (1542-1563) aveva cercato di porre rimedio con leggi severe alle sedi vacanti, ma, si sa, i cattivi costumi sono sempre difficili da cancellare, allora come ora.

Il Rettore Cristoforo Baldo (o Baldi) (1618-1622) nel 1621 restaurò l’antica chiesa di San Giorgio, della fine del XIV secolo, bisognosa di ritocchi importanti.
Fu poi vicario generale di Treviso e di Venezia (?). Un busto e un'iscrizione sul fronte della chiesa ne ricordavano la figura.

Il Rettore don Vincenzo Rusca (1622-1662), veneziano, assistette al periodo della tremenda peste che mieteva molte vittime in Venezia. Chirignago non fu certo esente. Per paura del terribile morbo e per evitare il contagio non si mosse più dalla canonica neppure per la sepoltura dei bambini e fu accusato di mancare ai suoi doveri pastorali. Fondò una seconda mansioneria, unendovi quella vacante di Ziraga (Zigaraga - Spinea) per il mantenimento di un sacerdote. Ebbe un quarantennio di parrocato che fece parlare la cronaca chiacchierona della mariegola della Misericordia.
Nel 1625 il beneficio tra fitti, livelli e quartesi rendeva anche 800 ducati.
Nel 1634 restaurò i libri canonici, in occasione della visita pastorale del 27 Settembre del vescovo di Treviso Silvestro Morosini, accompagnato dal vicario capitolare Baldassarre Bonifacio, che le cronache ci indicano fine letterato, oltre che parroco di Torreselle.
Nel 1641 il trentaseienne pittore Luca Ferrari, detto Luca da Reggio (1605-1654) realizza la pala attualmente conservata sul primo altare sulla parete sinistra in cornu Evangelii, detto "delle anime" o "dei morti", raffigurante Dio padre fra gli angeli, il Beato Bartolomeo di Chiaravalle e San Giovanni Evangelista.
Nel 1642 visita pastorale del vescovo di Treviso mons. Marco Morosini. Si ordina di cantare il vespero alla domenica e le litanie della Madonna il sabato sera. Si prescrive che la sagra sia celebrata con solennità, avvertendone il popolo nella precedente domenica e sonando campanò.
Nel 1647 visita pastorale del vescovo di Treviso mons. Giovanni Antonio Lupi, che ritorna a Chirignago in visita pastorale nel 1665.

Il Rettore Baldassarre Ficario (Figari) (1662-1690), nato nel 1630, si proccupò per un secondo restauro della vecchia chiesa, rimaneggiata fondamentalmente tanto che fu necessaria una seconda consacrazione. Le feste solenni si svolsero il 21 settembre 1674 (San Matteo) con la partecipazione del vescovo di Treviso Bartolomeo Gradenigo e dei nobili veneziani che villeggiavano in Zelarino.
La partecipazione del popolo fu totale. Le carrozze con il seguito degli accompagnatori, al passaggio per le vie del paese, vennero accolte al suono delle campane fra due ali di popolo riversatosi lungo il percorso.
A destra della facciata del coro fu posta una lapide commemorativa a ricordo della consacrazione della chiesa, la cui festa era la domenica più prossima a San Matteo (fino ad allora si festeggiava il 13 giugno).
Nel 1679 don Baldassarre aveva accolto a Chirignago il vescovo di Treviso mons. Bartolomeo Gradenigo in visita pastorale.
Verso la fine degli anni ’80 del Seicento, troviamo partecipare attivamente alle funzioni della chiesa di San Giorgio il confessore nipote (e omonimo) del pievano, Baldassarre Ficario. Non è la prima volta che il rettore di Chirignago chiama presso di sé un parente, per agevolarlo nella carriera, come d’uso, dal momento che non c’erano benefici sufficienti per tutti coloro che volevano diventare sacerdoti. Inoltre, considerato che il mantenimento dei cappellani curati rientrava nelle sue spese, era comprensibile la scelta di favorire un membro della propria famiglia, piuttosto che qualcun altro.
Il nipote rimase in parrocchia come cappellano per molti anni, anche dopo la morte dello zio pievano, avvenuta il 5 dicembre 1690, all’età di circa 60 anni, di cui quasi metà trascorsi a Chirignago. Fu confortato dal sacramento della penitenza impartito da don Lorenzo Mundi, presbitero della chiesa di Spinea, mentre l’estrema unzione gli venne somministrata da don Giacinto Spada, mansionario e confessore in Chirignago.
Il corpo del sacerdote, com’era consuetudine, fu seppellito all’interno della chiesa.

Il pievano Don Giovanni Bortolotti (Bortolato) (1691-1724), nato nel 1659, come il predecessore Ficario ha un nipote “da sistemare”, è il chierico Francesco de Bon. Collocato il primo, eccone arrivare da lontano un altro, Francesco Antonio Bortolotti figlio del signor Gabriele meo nepote di familia romana.
Piuttosto distratto, confonde più volte i libri canonici tra loro, registrando i battesimi nel libro dei defunti.
Nel 1696 accoglie il vescovo di Treviso mons. Giovanni Battista Sanudo in visita pastorale.
Sappiamo inoltre che il 5 Giugno 1717 seppelisce Maria Bortolotti figlia di Gabriele, una bambina di circa otto anni sua parente, sotto la scala del pulpito della chiesa.
Durante il suo parrocato viene costruita villa Cecchini (poi del Conte Giorgi). Questa villa, che fu antico monastero, fu rasa al suolo nei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Sono rimaste miracolosamente intatte solo le antiche mura con la pregevole edicola religiosa del 1719, con statua della Vergine (rubata nel 2004 e sostituita da una copia), che ha dato il nome alla Via della Madonnetta.
Nel 1723 con i beni della Scuola di San Valentino (attiva fino alla seconda guerra mondiale) viene fatta una stauroteca per contenere una reliquia della Vera Croce di Nostro Signore. Il preziosissimo reliquiario è d'argento, lavorato a cesello in forma di croce con raggiera dorata. La lancia e la spugna si appoggiano alle braccia della croce, al di sotto e al di sopra della quale vi sono due cherubini. Sul piedistallo l'iscrizione: "Fu fatta di beni della Scuola di San Valentino MDCCXXIII". (foto1; foto2; foto3; foto4)
Morì il 5 Marzo 1724, a 65 anni, munitus omnibus sacramentis Sanctae Matris Ecclesiae. Non lascia però la sua pieve, perché la salma, come molti suoi predecessori, viene sepolta all’interno della chiesa.

Il parroco don Vittore Scotti (o Scoti o Scoto) (1724-1740), nato a Treviso il 23 maggio 1692, figlio del conte Alvise Scotti, era di famiglia nobile veneta, proprietaria di terre e ville anche nel noalese. Avviato al sacerdozio, venne fatto prette Prebendato nella Cattedrale. Fece il suo ingresso a Chirignago il 30 Luglio 1724. Nel 1725 accolse il vescovo di Treviso mons. Augusto Zacco in visita pastorale. Molto rigoroso e operoso, nel 1740 restaurò personalmente i libri canonici con l’aiuto del mansionario don Domenico Antonio Accursino e vi introdusse il volgare come lingua di registrazione, anticipando così di una decina di anni le disposizioni del vescovo di Treviso Benedetto de Luca. Venne traslato a beneficio della Parrocchia urbana di Sant'Andrea di Treviso il 24 Settembre 1740, dove morì di febbre maligna, a 56 anni, il 18 maggio 1748. Fu sepolto nella chiesa di San Giovanni di Riva.
Approfittò del suo ministero cittadino a Treviso per dedicarsi alla ricerca e allo studio delle fonti storiche, e frutto di questa sua attività furono i 12 volumi manoscritti dell'utilissimo Codice diplomatico trevigiano. Si ricorda anche la raccolta in 2 tomi dei Poeti latini trevigiani, conosciuti col nome scelto dall'autore di Documenti trevigiani: una monumentale trascrizione di documenti trevigiani dei secoli X - XVII. Riprese e completò la Tarvisinorum Episcoporum Series, rimasta interrotta alla morte dell'autore, il canonico Antonio suo fratello, che si ricorda per molte opere di storia, antiquaria e diplomatica latine ed italiane. Il fratello Arrigo (o Giannarrigo), che si ricorda per la perizia nella numismatica, di cui possedeva un copioso e ricco museo, seguì l’insegnamento di Vittore raccogliendo nei Monumenta civitatis Tarvisii documenti di epoca romana e altomedievale. Il fratello Ottavio invece fu celebre per la civile Architettura, come le belle fabbriche co' suoi disegni innalzate in patria ed altrove, e la sua opera intitolata Studio d'Architettura, lo manifestano. Il conte abate don Vittore fu membro autorevole della comunità erudita della città, fu tra i rifondatori dell'Accademia trevigiana dei Solleciti accanto a Rambaldo Azzoni Avogaro, il più noto erudito della Treviso settecentesca.

Don Vittorio Allegri, Arciprete (1741-1774), nato nel 1707, oriundo di Loreggia, era laureato in legge e proveniente dalla nobiltà veneziana. Era molto ordinato e aveva una bella scrittura. Il padre si chiamava Giovanni.
Nelle sue funzioni era aiutato dal nipote don Andrea Allegri e da un parente, don Antonio Allegri, oltre che da altri cappellani. Costituì la Scuola della Dottrina Cristiana.
Durante il suo parrocato, Flaminio Corner (o Cornaro) (1693-1778), procuratore di San Giorgio, celebre senatore storiografo della Chiesa veneziana e torcellana, donò alla chiesa di Chirignago due bellissimi e preziosi reliquiari d'argento lavorato a sbalzo. Tra le diverse reliquie in essi contenute: la colonna di Nostro Signore, il velo della Beata Vergine, il pallio di San Giuseppe, un dente di San Giuliano martire, un dente di San Giustino martire e poi San Luca Apostolo ed Evangelista, San Bartolomeo Apostolo e martire, San Biagio Vescovo e martire, San Basilio Magno Vescovo e Dottore della Chiesa, San Barnaba Apostolo, Santa Teodosia vergine e martire, Sant'Aurelia martire. A Corner, che villeggiava spesso con la nobile famiglia veneziana ad Azzeggiano nell’omonima villa cinquecentesca, vennero tributati da tutta la popolazione grandi onori meritevoli, in una festa particolare fissata l'8 Settembre 1749, quando ancora si villeggiava durante l’autunno e l’estate. I reliquiari, alti entrambi 45 cm, erano stati esposti per la prima volta sull'altare della Beata Vergine della Misericordia il giorno dell'Assunta, solennità della Confraternita, nell'anno 1749. Nel 1754 la stessa confraternita commissionò la realizzazione di un tabernacolo marmoreo per l'altare della Beata Vergine della Misericordia, per riporvi il SS.mo Sacramento il Giovedì e Venerdì Santo, e per custodire i due reliquiari donati da Corner. Purtroppo solo uno è giunto a noi (foto1; foto2).
Nel 1754 Flaminio Corner arricchì l'oratorio di Asseggiano dei corpi santi di San Bonifacio (sotto la mensa) e Santa Caterina, del Sangue di San Fortunato (sopra l'altare) e lunghissima serie di reliquie insigni (ancora attualmente vi sono custodite reliquie di San Domenico, San Stanislao, San Bartolomeo, San Donato, San Cosimo, Sant'Anna, Santa Cecilia, San Filippo Neri, San Pio V). Nel 1747 vi si era posta anche la Via Crucis, per merito dei monaci.
Proprio don Vittorio Allegri è sottoscrittore delle Ecclesiae Venetae di Corner.
In quel periodo la vita religiosa era talmente sviluppata, che Chirignago contava ben nove preti nel centro e nelle frazioni di Azzeggian, Catene, Giustizia, Bottenigo, Villabona.
Tra il 6 ed il 7 Settembre 1753 ci fu la visita pastorale del Vescovo di Treviso Paolo Francesco Giustiniani, nobile veneziano. Fu ospite dei nobili del luogo e venne con un seguito di servitù ed un accompagnamento di carrozze come era l’uso dei tempi e come consuetudine per l’autorità episcopale. Tra il tripudio generale, al suono gioioso delle campane, la popolazione rurale di Chirignago non fu meno delle altre nel tributare gli onori al proprio presule, e si riversò tutta lungo il percorso delle carrozze col seguito.
Nel 1761 seconda visita pastorale del vescovo di Treviso Paolo Francesco Giustiniani. Don Vittorio Allegri ottiene il titolo di Arciprete trasferibile ai suoi successori.
Nel 1767 l'organaro veneto Gaetano Callido (1727-1813) realizza per la chiesa di Chirignago un organo, con numero d'opera 33, come si legge nel catalogo generale delle opere costruite dal celebre “Professore d’Organi” (Chirignago Parrochia). [Nel 1877 l'organo Callido viene trasferito nella nuova chiesa di Chirignago, restaurato e rielaborato dall’organaro veneziano Pietro Bazzani (1816-1880), con i nipoti Giacomo e Pietro. A due manuali, viene montato sulla loggia di destra in cornu Epistulae sopra l’entrata ad est. Nel 1914 l’organo Callido-Bazzani viene venduto all’arcipretale di Dolo (Venezia). Al suo posto viene collocata la lapide commemorativa a ricordo dell’erezione della chiesa, originariamente posta sopra l’ingresso principale].
Nel 1767 nasce a Chirignago Pietro Busatti, che dal 1827 sarà arciprete di Robegano.
Don Vittorio Allegri morì alle ore 16 del 3 Aprile 1774, a 67 anni, per male di petto di giorni 6, in comunione di S.M. Chiesa munito con tutti li Sagramenti. Fu sepolto in chiesa, vicino all’altare di San Sebastiano.

Don Giannandrea Piccinato, Arciprete (1774-1813), nato nel 1734, del clero di Mestre, era vicario foraneo e professore di sacra teologia. Di lui sappiamo che il padre si chiamava Angelo (morto ad 83 anni l'11 agosto 1792 e sepolto in chiesa a Chirignago nell'arca della nobile famiglia Raspi).
L'8 ottobre 1777 accolse il vescovo di Treviso Paolo Francesco Giustiniani nella sua seconda Visita Pastorale. Dieci anni dopo lo invitò, un mese prima delle dimissioni del presule stesso, a consacrare la chiesa per la terza volta, dopo grossi restauri. Il 20 Settembre 1787 i rurali di Chirignago solennizzarono così i sacrifici compiuti.
Il 23 novembre 1780 muore l'Abate Pietro Antonio Zini, veneto, per febbre infiamatoria munito di tutti li SSmi Sacramenti e della benedizione papale. Viene sepolto nel suo oratorio in Villabona con l'assistenza dell'arciprete Giannandrea Piccinato.
Il 12 marzo 1782 un avvenimento eccezionale scuoteva la gente di Mestre e sobborghi. Papa Pio VI era di passaggio, sostava in villa Erizzo e celebrava la Santa Messa nella cappella annessa (tuttora esistente nell’attuale Piazzale Donatori di Sangue).
Il 27 Settembre 1791 accolse il vescovo di Treviso Bernardino Marini, veneto, in visita pastorale.
Il 14 marzo 1800 i cardinali riuniti in conclave presso l'abbazia benedettina di San Giorgio Maggiore, nell'isola di San Giorgio a Venezia, eleggono Papa il cardinale Barnaba Chiaramonti, che assume il nome Pio VII. Fu l'ultimo conclave della storia ad aver luogo fuori Roma.
Nel 1811 si ammalò seriamente con aberazioni di mente. Morì il 6 Gennaio 1813, a 78 anni, alle 5 di notte per un colpo apopletico, munito soltanto dell’assoluzione, oglio santo e benedizione papale attese le continue aberazioni di mente.
La sua salma non viene seppellita all’interno della chiesa, ma nel cimitero, per ottemperanza alle nuove disposizioni napoleoniche decretate con il famoso editto di Saint Cloud (1806), dal rev.mo Don Sebastiano Zilio arciprete di Zelarino.
Il nuovo cimitero sorgeva lontano dal centro abitato, per motivi igienici, ma a dire il vero si continuava a seppellire i propri cari intorno alla chiesa, dove batteva il cuore di tutta la comunità.
I decreti napoleonici soppressero anche la Confraternita della Madonna, con la confisca di tutti i suoi beni. Sopravvisse invece la Confraternita del Santissimo Sacramento, che sarà attiva fino alla seconda guerra mondiale.

Di Don Lorenzo Campello, Arciprete (1813-1836), nato nel 1753, del clero di Mestre, sappiamo che proveniva da Mogliano e che il padre si chiamava Andrea.
Il 16 Settembre 1835 accolse il vescovo di Treviso Sebastiano Soldati in visita pastorale.
Morì ad 83 anni alle 4 del mattino del 24 settembre 1836, dopo 7 giorni di decubito, per febbre gastrica verminosa, munita l’anima sua di tutti li ss.mi sacramenti, e benedizione papale. Fu sepolto la mattina del 25 nell’antico cimitero di Chirignago.

Don Benedetto Veruda, Arciprete (1836-1861), nato a Venezia nel 1799, proveniva da una famiglia agiata e colta, di origine veneziana. Ordinato presbitero nel 1821, aveva vissuto la sua prima esperienza di apostolato a Carpenedo, dove era stato coadiutore dello zio parroco, don Antonio Veruda, umanista ed orientalista molto apprezzato. Dopo la morte di quest’ultimo nel 1827, don Benedetto viene nominato parroco a Trivignano e successivamente è traslato al benefizio di Chierignago, dove fu eletto a reverendo amministratore dei benefizii vacanti, come pro-vicario foraneo. Anch’egli amante delle lettere, scrisse un’opera sui quartesi.
Il padre Giovanni Antonio era un valente cerusico chirurgo scientifico e viveva con la moglie Elena Adorno ed una sorella nubile, Rosa, accanto al figlio.
Studioso di scienze letterarie ed ecclesiastiche, compì a sue spese altri restauri alla chiesa.
I genitori dell’arciprete morirono anziani, il padre a 78 anni il 13 Gennaio 1845, la madre il 30 giugno dello stesso anno a 74 anni e la zia Rosa il 29 novembre 1850 a 85 anni. Veruda li seppellì accanto ai suoi parrocchiani.
Fu eletto dal paese a rappresentarlo nell'assemblea della Repubblica del 1849.
Il 16 Aprile 1853 don Benedetto Veruda accolse il vescovo di Treviso, il beato Giovanni Antonio barone Farina di Gambellara, noto perché fondatore dell’ordine delle Suore Dorotee, in visita pastorale.
Francesco Scipione Fapanni scrisse un aneddoto curioso su don Benedetto Veruda: "In quanto a’ cavalli ben diverso dovea essere l’umore di D. Benedetto Veruda, arciprete di Chierignago. Dotto ed esemplare, siccome era veneziano, non s’impacciava troppo cavalli: pure gli abbisognava tenerne uno mansueto, onorato, e talvolta doverlo guidare lui stesso. Comperò un cavallo moro dal greco Filli Bua, che abitava un miglio lontano dalla canonica, e vi si andava per una stradicella frammezzo a’ campi. Il cavallo era quieto, ubbiediente quanto una pecora, e facea proprio al caso del poco esperto auriga. Il giorno seguente dell’acquisto, egli monta nel suo calesse per avviarsi a trovar l’arciprete di Mestre, ch’era mons. Giovanni Renier (dal 1856 vescovo di Belluno-Feltre). Fatti pochi passi sulla via maestra e principale del villaggio, si trova a sinistra la stradicella, che mette al luogo del Bua. Il cavallo, avvezzo da molto tempo a percorrere quella viuzza, giunto all’imboccatura d’essa, si volge credendo andare alla sua stalla antica. Il Veruda non ebbe la prontezza, né il coraggio di tirar la briglia a destra per seguitar la strada di Mestre, e si lasciò condurre a casa del Bua. È da notarsi, che il Bua essendo di greca religione, non era mai visitato dal piovano: laonde vedendolo così presto a lui venire, chiese qual buon vento lo riconduceva a lui. E risposegli il Veruda, ch’ei non veniva punto per fargli visita, che il cavallo, uso alla solita via, lo avea colà condotto. Il Renier poi in un capitolo berniesco descrisse l’aneddoto del buon Veruda".
L’ottimo arciprete Veruda scrisse una biografia, conservata negli atti parrocchiali, di Marianna Zanella, una donna morta di encefalite, in odor di santità, il 23 giugno 1842 alle ore 2 del mattino munita dei ss. Sacramenti di confessione, comunione O.I. Pontificia assoluzione. L’arciprete Veruda ne era il padre spirituale e ne dirigeva l’anima. Marianna era figlia di Antonio Zanella e Giacoma De Bortoli ed era nata a Feltre il 10 ottobre 1803. Visse santamente, nubile. Fu seppellita nell’antico cimitero a parte destra della porta, che guarda il mezzogiorno. Marianna Zanella doveva aver condotto un’esistenza davvero esemplare, testimonianza di profondi valori religiosi e morali, per indurre il parroco a scrivere una memoria della sua vita. Sarebbe forse il caso di indagare in merito.
Nel 1857 il trentaquattrenne Domenico Acquaroli, nato a Venezia l’8 Agosto 1823, realizza la pala attualmente conservata sul primo altare sulla parete destra in cornu Epistulae (eretto nel 1736) raffigurante I Santi Lucia di Siracusa, Antonio da Padova e Giuseppe.
L'esemplarissimo don Benedetto Veruda muore a 62 anni il 14 Gennaio 1861 di gastrite lenta. La memoria funebre viene letta dall'Arciprete di Zelarino mons. Giulio Cesare Parolari (1808-1868). Eccone alcuni estratti:
[…] “Vir simplex et rectus, ac timens Deum” (Job. XI. 4.). E per verità; io non saprei trovare encomio più bello, lode più sincera e che meglio rilevi e scolpisca la fisonomia morale, i caratteri, a così dire, distintivi del Veruda quanto il chiamarlo uomo semplice, uomo giusto, uomo timorato del Signore. E se vi piace vederlo, non avete che a seguirmi passo passo nel mio discorso.
Aveva egli sortito da Dio una di quelle anime che i santi libri chiamano per eccellenza buone, quanto è a dire, semplici e schiette. Di quelle anime che, tutte candore d’ingenuità, ignorano l’umana malizia o non la sospettano in altri, o non vi credono; sia perché ripugni ad esse di vederla incarnata in qualche soggetto, o perché amino di gittarvi su e di nasconderla col manto della carità. E quando pure ne provino in sé e ne tocchino con mano gli effetti, chiudono gli occhi, impongono stretto silenzio alla lingua, amando piuttosto d’essere ingannati che d’ingannare, preferendo di farsi vittime delle macchinazioni dei tristi, anziché raggirare, ordir trame, fabbricar trabocchetti. – E la semplicità del Veruda era divenuta pressoché proverbiale; tanto si dimostrò sempre corrivo a pensare il bene, ritroso a supporre il male: cosa notabilissima in uomo d’ingegno svegliato e non inesperto del mondo! Né l’uso del conversare, né tanti amari disinganni, né il crescere dell’età scemarono in lui questa bella e rara semplicità. – E la deridano i mondani a lor posta, giusta il sacro detto: “deridetur justi simplicitas”. Perché il mondo, soggiunge qui da suo pari il P. S. Gregorio, stima e chiama sapienza, nascondere il cuore di mezzo a bugiardi inviluppi, velare i sentimenti dell’anima con menzognere parole, dimostrar false le cose vere e le vere spacciare per false (libr. X in Job.). No, no; il nostro Benedetto si gloriò in tutta la vita d’ignorare una cosiffatta sapienza e si tolse in buona pace i ghigni e le beffe de’maligni.
E perché sapeva egli da Isaia (XXVI. 7) che la via dell’uomo giusto è sempre diritta “semita justi recta est”; sconobbe le ambagi, i ravvolgimenti, le arti tortuose e coperte onde oggidì si vorrebbe rimbellettare la schifosa bruttezza di tanti tristissimi fatti co’ nomi speciosi di avvedutezza, di circospezione, di prudenza. Prudenza sì della carne, non già dello spirito, che mena gli uomini alle frodi ipocrite, alle ambizioni sfrenate, al favoloso ammassamento di colossali fortune, entro il giro di pochi lustri. Ma nel Veruda il labbro non ismentì mai la parola del cuore; e se purissime furono d’ogni tempo le sue intenzioni, non meno pure e rette si chiarirono le opere e i discorsi di lui. Di falsi galantuomi ahi! troppo formicola ogni condizione della grande umana famiglia: tanto è vero che l’essere stimato e riconosciuto per galantuomo si giudica somma lode. Ma se pure una virtù, tanto facile e naturale ai buoni, merita encomii segnalati e speciali pienissimi e singolarissimi li conseguì quest’uomo eccellente che fu la rettitudine stessa in persona. Fermo mantenitore della data promessa, ove pure dall’osservarla gliene venisse alcun danno, leale e sincero sino allo scrupolo, non timido amico della verità quando il manifestarla gli fosse debito di coscienza, santamente sdegnoso di qualsiasi adulazione o viltà, ne’ varii eventi della vita non operante per isbalzi od a caso, ma pensatamente e a tenore dei principii regolatori della propria condotta; tale io stesso conobbi per oltre a trent’anni D. Benedetto Veruda, tale lo confessarono gli amici, i conoscenti, la pubblica voce.
E questa rettitudine tanto esemplare e specchiata, da che altro poteva in lui derivare, se non da quel principio e fondamento d’ogni sapienza che è il timore di Dio: “vir simplex et justus ac timens Deum”?
[…] Cominciò da quella parte che è la prima e la più importante dell’uffizio pastorale; a bene istruirvi, cioè, nella dottrina di Gesù Cristo. Può uno praticare i proprii doveri, se prima non li conosca? vivere da buon cristiano, se non ne sappia né il come, né il modo? E tanto egli v’insegnò con sapienza di bravo maestro, con cuore e pazienza di vero padre ne’ catechismi, nelle spiegazioni evangeliche, in tutte le altre istruzioni date a voi e a’ figli vostri in pubblico ed in privato. Eravate voi la pupilla dell’occhio suo, il cuore del suo cuore, la sua eredità, il suo gaudio, la sua corona. E perciò a mettervi in mente le verità necessarie a sapersi, non risparmiava cure, tempo, fatica.
Né minori cure, tempo e fatica impiegò per condurvi a quelle fonti di grazia e di misericordia che sono i ss. Sacramenti. Perché gioverebbe assai poco l’essere nutricati col pascolo della divina parola, ove la gente fedele non avesse chi, nel tribunale di penitenza, non ne curasse le piaghe, che troppo spesso fa nell’anima il peccato, e con avvisi prudenti, con esortazioni e consigli non ne prevenisse le ricadute. E a rinforzare la natural vostra debolezza, ei v’eccitava con calde e frequenti parole ad accostarvi alla mensa de’forti, voglio dire alla ss. Comunione. Finché la salute glielo permise, venne a visitarvi malati, a confortarvi afflitti, a prender parte alle contentezze che con consiglio d’amore, poche e rade a voi manda la Provvidenza.
E il cuore largo e caritatevole che gli aveva dato Iddio, nol fece mai tardo nell’ajutare i poverelli. In parochia, ove le rendite dell’arciprete non sono scarse, in tanti anni d’abbondanza passata e provveduto di beni proprii, avrebbe potuto ammassare un non mediocre peculio. Eppure, morto non gli si trovarono che poche lire; e di roba patrimoniale, io credo, neppure un soldo. Ove dunque nascose egli tanti danari? ove andarono a finire tante sostanze? Ditelo, o poveri, rispondete voi, o bisognosi, alimentati, vestiti, soccorsi da lui in tanti modi diversi. Dicano e rispondano i vecchi cadenti, le vedove derelitte, le donzelle pericolanti, gli orfani abbandonati che dalla sua profusa carità ebbero uno schermo contro la fame, il disonore, la disperazione. Oh! delle limosine di lui si può dire veramente che racconterà la sua parochia. “eleemosynas illius ennarrabit omnis ecclesia” (Eccli. XXX. 11).
Ma non può un paroco giungere a tanto, non può edificare il mistico corpo di Cristo, cioè la propria parochia, se prima egli non edifichi se stesso colla ritiratezza, collo studio, colla preghiera. E queste tre doti, tanto indispensabili in uomo che sia preposto al governo delle anime, risplendettero bellamente in D. Benedetto Veruda.
“Cella continuata dulcescit” ripetea egli di frequente coll’autore della Imitazione; e le ore trascorse in compagnia di se solo gli parevano sempre brevi. Amava il silenzio e la pace della sua canonica in cui poteva esser trovato pressoché a tutte le ore; rifuggiva dalle conversazioni oziose, ove la carità del prossimo fa sì spesso naufragio, e non mostravasi fuori, se non allora che ve lo chiamasse il dovere o un qualche raro ed onesto sollievo allo spirito stanco. E fornito di buon ingegno e di buoni libri, sodamente istituito nelle scienze ecclesiastiche e nella bella letteratura, ciò che gli sopravanzasse di tempo dai parochiali ministeri, spendeva studiando. Perché le labbra del sacerdote devono custodire il sapere, e i popoli soggetti ricorrono a lui per essere ammaestrati nella legge (Malach. II. 7.)
E poiché dolce amica agli studii e chiave alla intelligenza è la preghiera, né può dispensarsene, non che un sacerdote, qualsivoglia cristiano; il tanto buono vostro Arciprete, o uditori, se a voi insegnò le mille volte quanta sia la necessità e la bellezza del far orazione, in se stesso ve ne diede l’esempio. E lo vedeste sempre tutto composto e divoto ne’ divini uffizii, nella celebrazione della s.messa, nelle pubbliche solennità. E ne’ ritiri mensili in cui costumava raccogliersi, nella cotidiana meditazione, nella visita al Sacramento e in tanti altri esercizii di cristiana pietà, attingeva egli forza e coraggio, rassegnazione e virtù a sopportare in pace tante amarezze, a sostenere le fatiche a tollerare in questi ultimi tempi le malattie, a camminare con passo franco e sicuro verso la meta, che ahi! troppo presto raggiunse a sua grande consolazione e a nostro sconforto e dolore.
Sconforto dei tanti e tanti che meritamente l’ebbero in pregio e lo riguardavano qual modello dei sacerdoti e una delle gemme di questa diocesi; dolore e desiderio della sua cara ed eccellente famiglia con cui visse sempre concorde e amatissimo; e di voi particolarmente, o parochiani di Chierignago, che deste prove molteplici e fresche della riverenza e del bene che gli portavate: onde io bene intendo l’afflizione de’ vostri cuori. […] (clic qui per leggere la memoria completa).
A don Benedetto Veruda è stata intitolata una via in prossimità dell'area dove un tempo cresceva il Bosco di Chirignago.